L’avarizia 15 febbraio 2008

Pubblicato giorno 13 Ottobre 2016 - Senza categoria

AGORDO, Venerdì 15 febbraio, ore 20.30, Sala della Comunità Montana

L’orgia dell’avere e della passione. L’avarizia e la lussuria

Rev.ma Madre Maria Luisa CAPPELLETTI

L’avarizia

Abbiamo appena sentito che le vere patologie della vita dell’uomo sono: l’invidia, l’avarizia, la lussuria, l’ira, l’ingordigia, l’accidia, la tristezza, la superbia: “otto pensieri pericolosi per tutti”.

L’avarizia è annoverata tra i vizi capitali perché, come gli altri sette, è caput, capo, origine di vari mali dello spirito. Possiamo dire con un monaco, asceta e scrittore cristiano della seconda metà del IV secolo, Evagrio Pontico, che essa è “voto di ristrettezza, ricchezza di prigioniero, opulenza di malanni, una follia insaziabile, preoccupata malvagità” e genera insensibilità di cuore, inquietudine nel possesso, ingratitudine, pigrizia, frode e altri soprusi.

Il nostro impegno sarà quello di prendere consapevolezza di questo male, l’AVARIZIA, di smascherarlo in noi e con esso quegli atteggiamenti che rischiano di compromettere non solo la tensione spirituale della vita religiosa, ma anche la quotidianità della vita civile.

Si tratta – per me, per tutti – non solo di riconoscere gli errori del proprio comportamento (riusciamo talvolta ad ammettere: « Ho sbagliato »), ma anche e soprattutto di confessare che c’è qualcosa di condannabile entro la nostra realtà più intima e più segreta. E questa un’impresa difficile che implica un dolore, un’umiliazione cui difficilmente ci si rassegna.

Anche solo il dissociarsi da ciò che pur ammettiamo di aver compiuto, è qualcosa che per se stesso è molto lacerante. C’è tra noi e i nostri atti una complicata e inestricabile connessione. Essi sono parte di noi: nel nostro corpo portiamo tutti i nostri comportamenti, passati e attuali. Perciò è arduo dichiararne, anche solo a noi stessi, l’intrinseca malizia e rinnegarli. O, se si vuole, è facile che, dovendo rilevare, per forza di cose, la propria mancanza – sia essa inconscia o consapevole – si arrivi alla pura e infeconda disperazione, che non ha niente a che vedere col pentimento. E per questo grida Sant’Agostino (IV secolo): “Purificami, Signore, dalle mie brutture, ignote a me stesso”. Occorre proprio andare alla profondità di noi stessi in modo da conoscere i pensieri, gli impulsi al loro nascere, nel cuore, e, una volta trovati, occorre il coraggio di snidare quei mali pericolosi che ci bloccano.

Prima tappa: conoscere

Cos’è l’avarizia? Anche San Tommaso – siamo nel XIII secolo – pone l’avarizia tra le “radici di tutti i mali”, perché – dice –  sotto il suo mantello si cela la bestia sfrenata della cupidigia, pronta a tutto pur di soddisfare le sue brame. “Radice di tutti i mali”, una sfaccettatura del peccato d’origine, che tutti ci accomuna: quando infatti essa comprende la cupidigia nei confronti delle proprietà di un’altra persona, è invidia, quando viene applicata ad un eccessivo consumo di cibo, si parla di gola, un altro dei sette vizi capitali, e così via …

Già Gregorio Magno, nella seconda metà del VI secolo,  aveva elencato sette figlie dell’avarizia le cui fisionomie sono una deformazione nei confronti dell’amore: la durezza contro la misericordia, l’inquietudine della mente, la violenza, l’inganno, lo spergiuro, la frode e il tradimento.

L’avarizia è idolatria nel vero senso della parola perché fa del denaro l’idolo, la cosa più grande a cui si subordina tutto il resto; un possesso al quale «si deve sacrificare l’acquisizione dei beni e la soddisfazione dei bisogni e dei desideri», così oggi il filosofo Umberto Galimberti.

Si assiste ad uno stravolgimento di valori : l’avaro “volta le spalle al bene indefettibile e si dirige verso un bene mutevole”, capovolge il rapporto mezzo-fine.

Quando nella vita si insinua il veleno della cupidigia si arriva ad accumulare nella certezza che, solo possedendo tanto, è possibile per noi affermarci ed avere sicurezza nei confronti degli altri.  L’avarizia è una fiera che non si sazia mai e impedisce ogni confronto e, prima vittima diventa lo stesso avaro.

Egli ha come unico fine nella sua vita l’accumulo di denaro: esso rappresenta lo stesso avaro ed il suo potere. Karl Marx nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 rileva: “Tutto ciò che l’economia ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza, e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro”. Si crea la mentalità che i valori sono tali in quanto possono essere monetizzati. 

Possedere è legittimo: il problema inizia quando denaro e beni ci possiedono. Il denaro che lo spilorcio si impegna ad accumulare lungo tutto il corso della vita è destinato a essere conservato, a non essere mai speso. E qui sta la singolarità: infatti, se spendo il denaro, – così ragiona l’avaro – viene meno anche il mio potere e non posso più crogiolarmi nella certezza che il denaro che ho accumulato mi servirà in qualsiasi momento del futuro.

In pratica, tramite il denaro, l’avaro crede di poter controllare il futuro. «Stenta per non stentare» afferma Leonardo da Vinci. Eppure, paradossalmente, l’avaro morirà più volte: sembra quasi non rendersi conto che le continue privazioni che si impone per non spendere il denaro non fanno altro se non anticipare l’esperienza della morte nell’esistenza quotidiana.

L’ammassare senza tregua richiede una sorta di consacrazione assoluta e Giovanni Verga, in Mastro Don Gesualdo, ce lo mostra con evidenza: appare chiaro che la religione della roba non dà scampo a nessuno. La baronessa Rubiera non è disposta a dare niente per niente:  «Eh, caro mio! la nascita… gli antenati… tutte belle cose… non dico di no… Ma gli antenati che fecero mio figlio barone… volete sapere quali furono?… Quelli che zapparono la terra!… Col sudore della fronte, capite? Non si ammazzarono a lavorare perché la loro roba poi andasse in mano di questo e di quello… capite?…». E più avanti,  Gesualdo a Diodata: «… E la mia roba?… me l’hanno data i genitori forse? Non mi son fatto da me quello che sono? Ciascuno porta il suo destino!… Io ho il fatto mio, grazie a Dio, e mio fratello non ha nulla… Che vuoi? Non si può far sempre quel che si desidera. Non sono più padrone… come quando ero un povero diavolo senza nulla… Ora ci ho tanta roba da lasciare… Non posso andare a cercar gli eredi di qua e di là, per la strada… o negli ospizi dei trovatelli.» E ancora, quando Gesualdo si accorge di essere malato decide di andare per un ultimo saluto alle sue proprietà più amate «…Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d’un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui».

Oltre al timore per il futuro, dunque, e ad una sorta di immobilismo nel presente, egli – l’avaro –  ha un preoccupato timore delle relazioni sociali, in quanto le avverte come delle minacce al suo potere.

“Io sono ciò che ho” ripete di sé l’avaro: l’avere diventa la radice del suo essere che risulta in tal modo cosificato. Egli cerca di ogni realtà l’esclusivo dominio, economicamente quantificabile, e non un gioioso godimento.

La smisurata ricerca dell’avere, l’eccessiva brama di possedere, tanto di una persona come di un gruppo, non lascia spazio a nient’altro, interessi, persone, rapporti, e finisce spesso col rendere ogni avaro addirittura insopportabile e malvisto. Ne deriva un isolamento che, in certo modo, risulta essere anche presupposto dell’avarizia. Se io non ho relazioni, mi butto facilmente sul possesso e finisce che gli altri mi abbandonano davvero.

È evidente l’ambiguità della situazione: la solitudine genera avarizia e ne è a sua volta generata.  L‘esasperazione di questo può arrivare perfino ad originare una sorta di un’autodistruzione sul piano individuale poiché ogni avaro difficilmente ammette di essere tale, ritenendo il suo atteggiamento soltanto una difesa di quello che possiede. Anzi, si sente “vittima” di continue aggressioni a ciò che gli appartiene, sentimenti o denaro, e, addirittura al suo essere, poiché, come dicevo prima, asserisce “io sono ciò che ho”.

L’avaro, così ripiegato sulle cose e su interessi meschini e mistificanti, arriva a diventare insopportabile e odioso, in un crescendo squallido e preoccupante perché mentre con l’invecchiare dell’uomo tutti gli altri vizi invecchiano, come afferma nel IV secolo San Gerolamo, la sola avarizia conserva il vigore della gioventù. 

Orazio affermava: “ Non vedo come possa essere migliore e più libero di uno schiavo l’avaro che si getta a terra per raccattare un soldo in un incrocio: l’avido è un timoroso, e chi vive nel timore, per me, non sarà mai libero, mai.”

Schiavitù dunque è l’amara esistenza dell’avaro: ma naturalmente c’è una gradualità pure in questo vizio, che, a ben considerare, ha radice in tutti noi. Andando dalla semplice spilorceria a una specie di idolatria del possesso – l’avaro in tutte le cose pensa sempre all’acquisto, all’avere e mai al dare – si può arrivare alla cupidigia di non prodigare esortazioni, consigli, correzioni e simili se non dietro un compenso materiale o compenso di ossequio e di favoreggiamento.

La grettezza dell’avarizia ci impedisce di avere alcun riguardo per l’altro: siamo esigenti, speculando addirittura sulle necessità e disgrazie altrui; inesorabili e crudeli.  È nota l’espressione di Virgilio: “ Che cosa non costringi a fare, o esecranda (in latino sacra ) fame dell’oro” nel testo dell’Eneide che si riferisce all’uccisione di Polidoro, figlio di Priamo ed Ecuba, da parte di Polimestore, re dei Traci cui i genitori lo avevano affidato, il quale intendeva impossessarsi del tesoro di Priamo che il giovane portava con sé.

Per brama dei beni non si esita ad eliminare – anche solo a parole – un competitore negli interessi e si provoca qualsiasi danno, pronti a mentire talvolta, per ricavarne un vantaggio personale.

Una riflessione sulla cultura economica dominante oggi può aiutarci a comprendere meglio il perverso meccanismo dell’avarizia che ci abita e a denunciarne la non-sostenibilità in termini di autenticità di vita, riconoscendo che tale spirale avvolge anche noi personalmente. 

Si parla molto, negli ultimi anni, del cosiddetto “paradosso della felicità”, così  definito dall’economista Luigino Bruni. Molte ricerche segnalano che nei paesi a economia avanzata (Usa, Giappone, Unione europea) si assiste a una diminuzione di felicità soggettiva a fronte di un forte aumento di reddito. Esiste infatti una rincorsa irrazionale, sfrenata e infelice tra mezzi economici e aspirazioni. Quando aumenta il reddito si ricercano avidamente con continuità piaceri più intensi per mantenere lo stesso livello di soddisfazione. Anche la pubblicità è un meccanismo potentissimo che fa leva su tale principio. E questo spiega il grande spreco e l’irrazionalità nell’uso del nostro tempo e delle nostre risorse: avarizia e prodigalità si alternano, si richiamano, si compenetrano e si confondono.

C’è da chiedersi allora se sarà proprio l’esigenza di relazioni umane profonde, portatrici di senso, a provocare il superamento della cultura economica, quale la nostra oggi. 

Ma l’avarizia non riguarda solo il denaro bensì tutto ciò che pensiamo ci appartenga. Per esempio, siamo ben muniti di tempo, una preziosa moneta – il tempo è denaro!- che pensiamo solo a tesaurizzare per i nostri interessi. Abbiamo talenti come l’intelligenza, l’acume, la vigoria del fisico, oppure i nostri progetti, le stesse idee, ecc:  li gestiamo con uno spirito di proprietà, accaparrandoceli, quasi dimenticando che sono mezzi, doni e non privato dominio. Arriviamo talvolta a non accettare e a non fare mai buon viso alle cose altrui proprio in quanto sono altrui, e nel presentare le cose proprie quasi fossero di valore assoluto. Ci ostiniamo passionalmente a custodirle poiché sono diventate la nostra sicurezza e piacere, il nostro dio.

L’avarizia può farci calpestare anche i doveri e i vincoli più sacri e cari, come quello degli affetti verso i genitori e i parenti, il mondo dei sentimenti e delle relazioni.  Si arriva a ferire la comunità umana, a impedire la giustizia e l’esercizio della generosità.

Nessuna condizione è immune: dirigenti, operai e uomini di Chiesa, ignoranti e dotti, poveri e ricchi ne sono ugualmente affetti.

Seconda tappa: snidare il male e coltivare il bene

Dinanzi a questi evidenti e gravissimi danni tutti siamo interpellati a snidare e levare il male che ci attraversa e a coltivare il bene. Ma, il male acceca. L’avaro si protegge innanzitutto giustificandosi e trova sempre la necessità di avere di più.

Giovanni Crisostomo arriva a denunciare l’avarizia come bulimia dell’anima e il Siracide afferma che “l’insonnia per la ricchezza logora il corpo, l’ansia per essa toglie il sonno; l’affanno per essa fa vegliare e impedisce l’assopirsi. È come una grave malattia che bandisce il sonno”. Nel desiderio di denaro c’è un che di infinito.

L’insegnamento biblico al riguardo del possedere può sembrare complesso, addirittura contraddittorio: mentre, da una parte, la ricchezza è vista come un dono di Dio, dall’altro risuona la minaccia di Gesù: «Guai a voi ricchi, perché avete giù la vostra consolazione» (Lc 6, 24-25). Eppure, nella sua complessità, è un insegnamento coerente ed equilibrato. Nella Bibbia non troviamo una condanna aprioristica della ricchezza; tuttavia, dai testi del Vecchio Testamento, la ricchezza materiale non è mai presentata come il migliore dei beni: è un bene relativo.

Lo scandalo non è che ci siano un ricco e un povero, ma che il povero, pur desiderando di nutrirsi delle briciole che cadevano dalla tavola del ricco, non ne ricevesse nessuna (Lc 16, 21-23). Il ricco è responsabile del povero.  Gesù sentenzia: «Non potete servire a Dio e a Mammona» (Mt 6,24). Gli fa eco San Paolo che afferma senza esitazioni che i cupidi e gli avari non avranno parte al Regno di Dio (cfr. 1 Cor 6,10).

E ancora l’esortazione di Gesù in Mt 6, 21: “Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore”. Mi pare significativa la battuta attribuita a sant’Antonio da Padova, a questo riguardo, al funerale di un avaro ricchissimo: «Il suo cuore non riusciranno a seppellirlo, perché era troppo attaccato ai soldi!». Infatti, aperto il petto al defunto, non vi si trova il cuore che, secondo la predizione del Santo, è rinvenuto nella cassaforte dov’era conservato il denaro.

Avarizia e morte si incrociano: e l’ultima parola è della morte; ci ricorda ancora il salmo 49: “lo stolto e l’insensato periranno insieme e lasceranno ad altri le loro ricchezze. Il sepolcro sarà loro casa per sempre, loro dimora per tutte le generazioni, eppure hanno dato il loro nome alla terra.

… Se vedi un uomo arricchirsi, non temere, se aumenta la gloria della sua casa. Quando muore con sé non porta nulla, né scende con lui la sua gloria. Nella sua vita si diceva fortunato:  «Ti loderanno, perché ti sei procurato del bene».  Andrà con la generazione dei suoi padri che non vedranno mai più la luce. L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono”

“Sradicamento dell’avarizia è la povertà” afferma ancora Evagrio Pontico.  “Essa è radice della non avarizia, è frutto d’amore, tesoro che non si invidia, una ricchezza non circoscrivibile, pratica dei vangeli, facilità a separarsi dal mondo, la corsa di un atleta”.

Occorre lasciarsi spogliare di tutto – la vera povertà – per essere capaci di accogliere l’Amore, perché la logica dell’interesse personale, rende falsa e sospetta ogni opera. Cuore libero, sguardo fraterno, mani generose: in questa prospettiva anche la ricchezza può essere recuperata alla logica dell’Amore.

Terza tappa: convergenze tra cammini differenti

Le riflessioni del mio studio mi hanno portato a domandarmi quale poteva essere il mio contributo personale in un cammino comune, condiviso – il nostro –  che tende a superare resistenze e contrapposizioni: non certo una conferenza, mi sono detta, ma una sincera presa d’atto della realtà e la testimonianza, in semplicità, di una consacrata e missionaria.

Proprio poiché appartengo ad un Istituto missionario spesso vengo a contatto con culture diverse, spiritualità, idee, tradizioni, riti diffusi in particolare nel Sud Est asiatico, in Cina, in  Giappone, dove vivono e operano mie consorelle. Vorrei allora, in questa occasione, sottolineare alcune caratteristiche dell’atteggiamento di fronte all’avarizia in religioni non cristiane,  condividendo  cenni, frutto di esperienza e di incontri, che certamente non hanno la pretesa di uno studio o di sistematicità.

Nell’Islamismo, che ho avvicinato nel Sud delle Filippine, viene condannato chi è avaro di quello che Allah ha concesso della Sua grazia: “presto – recita il Corano – nel giorno del giudizio, gli avari porteranno appeso al collo ciò di cui furono avari.” La pena del contrappasso che ricorda quella di Dante e il IV girone dell’Inferno.

E continua il Corano “In verità Allah non ama l’insolente, il vanaglorioso, [e neppure] coloro che sono avari e invitano all’avarizia e celano quello che Allah ha dato loro della Sua Grazia.”

La corrente religiosa più integralista raccomanda la “zakat”, l’elemosina legale, che consiste nel donare ai bisognosi, a fine anno, una percentuale fissa dei propri averi, sia che essi siano denaro o altri tipi di proprietà, in ogni caso beni utilizzabili per scambi commerciali. Questa pratica, aiuta i credenti ad evitare l’ avarizia, ed ovviamente è utilissima per aiutare i bisognosi ai quali è destinata, e anch’ essa monda dal peccato.

I Buddhisti, particolarmente presenti in Asia, credono che l’avarizia sia basata su una scorretta associazione tra benessere materiale e felicità.

È un veleno e, provocata da una visione illusoria che esagera gli aspetti positivi di un oggetto, è anche sorgente di malattie mentali, definite come l’azione di “diavoli” interni, tendenze interiori che provocano la disarmonia della mente. Il termine sanscrito mara, che letteralmente significa “demone” ma anche “morte” o “che uccide”, veniva infatti tradotto in cinese come “distruttore” o “ladro di vita” ed è la personificazione delle funzioni negative caratteristiche della vita. 

L’avarizia è generata dall’avidità. Tale veleno – come peccato d’origine  – provoca l’esplosione di innumerevoli desideri terreni e prosciuga così la nostra innata forza vitale. Quando la vita è dominata dall’avidità, tutta l’energia vitale è incanalata verso l’oggetto del desiderio e ci indeboliamo, proprio come se venissimo dissanguati. È perenne insoddisfazione, rende schiavi dei desideri e degli attaccamenti, legandoci a lungo nel tempo a stati d’animo negativi. Rende invidiosi e gelosi: per ottenere l’oggetto del proprio desiderio, sia esso denaro o un altro bene, spinge ad architettare piani per distruggere gli altri, progetta vendette, calcola rivalse che esplodono nel mondo della collera.

Rimedi indicati? Identificare il veleno a cui è ascrivibile la sofferenza che stiamo sperimentando, aprendo mente e cuore davanti alle illusioni che impediscono di percepire la realtà quale è.  E poi “arricchire il cuore”, vivere a contatto di altre persone, condividerne le sofferenze, sostenerne la trasformazione. Una consorella di Taiwan mi diceva che la relazione con l’altro e il dialogo sono fondamentali nella cultura cinese: attraverso essi si  arriva sempre a cambiare qualcosa di noi stessi. Il dialogo è una sfida, ma mai contro qualcuno. È una sfida contro la propria resistenza ad aprirsi agli altri, a donarsi senza avarizia o secondi fini. Non significa simulare armonia né pretendere, ma donare tutto quanto si ha: punti di vista, esperienze, tempo, ascolto.

Insomma, tutto va nel senso opposto dell’avarizia.

Mi pare interessante allora osservare come in Oriente, pur esistendo tradizioni e culture tanto diverse dal pensiero occidentale, che mirano a liberare dagli affanni e dal dolore, ritrovando se stessi in un’assoluta imperturbabilità o addirittura in un’armoniosa assenza di passioni, si arrivi a indicare criteri per descrivere e snidare l’avarizia che vanno nella stessa direzione delle tradizioni  occidentali.

E, come cristiana, mentre guardo con rispetto ogni via che conduce a realizzare l’anelito religioso e che cerca l’armonia e l’equilibrio interiore – sono convinta che abbiamo da imparare – ritengo importante saper trovare, o ritrovare, in un rapporto vitale e personale con Dio, il coraggio e la gioia di affidarsi a Lui, al Suo amore, più grande delle nostre contraddizioni, e di accogliere il suo dono che può davvero superare l’ansia sfrenata dell’avere e del tenere, colmare il nostro vuoto, condurre nel cammino di realizzazione nella libertà..

Quarta tappa: una condivisione personale nell’itinerario di liberazione

Voglio condividere quanto in questo cammino la tradizione spirituale del mio Istituto suggerisce: la pratica fedele, quotidiana, dell’esame di consapevolezza, o, con un termine più noto, l’esame di coscienza.

Nella dinamica degli Esercizi Spirituali, sant’Ignazio più volte invita a farlo: è un momento privilegiato di «autocoscienza», in cui, dopo essere diventati consapevoli dei doni ricevuti, si passa alla consapevolezza di ciò che si è fatto: il bene quanto il male.

Anche il veleno dell’avarizia allora può emergere, nascosto nelle forme più svariate: ecco la grettezza, o la tirchieria intellettiva e materiale, il godimento per la situazione difficile o comunque sinistra di un avversario, la tendenza ad accumulare, il nascondimento di quello si possiede, la mancanza di ogni forma di com-passione.

E, se turba aver ceduto alla tentazione di negare al prossimo non tanto i soldi (un gesto di carità talvolta non costa molto e mette in pace la coscienza) quanto piuttosto il tempo nell’ascolto, nella vicinanza, nella tenerezza, posso rivedere con chiarezza i momenti in cui mi sono negata a chi voleva solo sentire una  parola buona, in cui ho evitato chi desiderava essere ascoltato, ho rifiutato affetto, ho conservato con avidità il mio tempo. In tali esperienze riconoscerò i segni di un’avarizia meschina come mia realtà intima e profonda. La consapevolezza delle tortuosità del mio male è pertanto un’esperienza pratica, concreta.

Presa coscienza del disordine delle mie attività – del male radicale che è nel mio essere – e aperta all’azione di Dio, secondo il mio proprio modo, unico e irripetibile, “la vocazione personale” dicono gli autori spirituali, mi incammino e, attraverso un processo di liberazione interiore sempre più profonda, arrivo a scoprire o discernere il riflesso della salvezza nella mia vita. Ogni giorno! Posso così trovare la mia risposta nell’esperienza quotidiana, e, con determinazione e contando sulla misericordia divina, rinnovo l’orientazione del mio essere alla sua Persona.

L’esame di consapevolezza, in altri termini, non è un esercizio di pura moralità ma un tempo quotidiano di discernimento, nel quale, cercando con autenticità la radice del mio agire, proprio per mezzo della concreta esperienza quotidiana, che giungo coscientemente ad accettare, qualsiasi essa sia, riesco ad assumere un atteggiamento cristiano riguardo ad essa; arrivo cioè a donarmi e ad arrendermi al Signore, e mi rendo libera per lui, attraverso quell’esperienza.

Pertanto, l’esame di consapevolezza ha l’intento di condurmi in un itinerario di unificazione e trasformazione (la conversione), in profondità, che apre alle responsabilità sociali e ad ogni impegno autentico di vita e di missione.  Giorno dopo giorno, ciò che era problematico arriva a trovare il suo posto e a avere senso perché si è integrato nella nostra stessa vita di persone in cammino verso la libertà, tese verso relazioni autentiche,  aperte alla solidarietà.

Trovo interessante anche proporre quanto in gennaio, la Conferenza episcopale delle Filippine – io mi trovavo nelle Filippine – ha espresso in un messaggio dal titolo “Quaresima, periodo in cui viaggiare insieme verso la trasformazione”.

Nel testo, è sottolineato come il periodo di preparazione alla Pasqua sia “l’inizio appropriato di una profonda riforma e conversione. E’ il periodo giusto per combattere i nemici che ci portiamo dentro, come l’orgoglio e l’avarizia”.

Per fare questo, conclude il messaggio, “ognuno deve impegnarsi per guarire i mali che affliggono la nostra società. Questa è la vera evangelizzazione, l’accettazione del compito che ci ha assegnato Dio: prenderci cura l’uno dell’altro, andare oltre noi stessi per vedere il bene comune. È il senso stesso della vita del cristiano”. Anzi, vorrei aggiungere, è il senso ultimo della vita dell’uomo, di ogni uomo nel cammino verso la piena realizzazione.

In questo itinerario di conversione dal male oscuro e meschino dell’avarizia, che non esclude in realtà nessuno, trovo conclusiva l’invocazione: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano!”. Pane significa tutto ciò che nella vita ci è necessario per continuare ad esistere.

Ai tempi di Gesù il pane era l’elemento base dell’alimentazione e dunque la domanda del pane è la richiesta di ciò che  serve per vivere secondo il bisogno.

Ma il  termine quotidiano completa: si intende così il pane necessario oggi, dove esso significa “qui e adesso”, non come indicazione puramente temporale: e il discepolo chiede al Padre ciò che gli serve a vivere ogni giorno nella giusta misura. Non meschino ammassare né granai colmi, non disordinati desideri né sovvertimento dei valori: Padre ci fidiamo di te, e il nostro vivere lo consegniamo alle tue mani.

Dacci il pane quotidiano, voglio essere libero dal tumulto dei desideri, dall’arroccarmi nei miei progetti, da pensieri, avidamente coltivati: quando sento che qualche mia ambizione comincia a tormentarmi, voglio essere libero, non voglio che il mio desiderio sia il mio signore. Dammi ciò che mi è necessario per ciò che mi serve e, nello stesso tempo, io ti consegno la mia povertà di spirito.